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Malcolm X, combattere con le parole e parlare ai ragazzi del ghetto


di Bruno Cartosio

Da "il manifesto" del 26 marzo 1993

 

Prima che le immagini inevitabilmente forti del film possano interferire con quelle evocate dalle parole sarebbe opportuno rileggerle in fretta quelle parole e ripensarle, prima che possano confondersi con quelle del film, per usarle come metro, ritrovando nelle parole di Malcolm X la sua dimensione storica vera. Il libro da leggere ora, è Con ogni mezzo necessario, apppena pubblicato dalla Shake Edizioni Underground (a vent'anni dalla prima traduzione einaudiana, a pochi mesi di distanza dalla ristampa dell'Autobiografia e in anticipo di qualche settimana sull'antologia in preparazione alla Manifestolibri). 
Il volume raccoglie discorsi, interviste, brevi interventi o dichiarazioni pronunciati e rilanciati da Malcolm X nell'ultimo anno della sua esistenza, tra il marzo 1964 e il 21 febbraio 1965, quando fu assassinato a New York. Il periodo è quello in cui Malcolm, dopo aver abbandonato la Nation of Islam, i Black Muslims, cerca di mettere in piedi una sua organizzazione politica, la Organization of Afro-American Unity - e una sua struttura religiosa propriamente islamica - la Muslim Mosque, Inc.

All'inizio del 1964 compie viaggi in Africa e nel Vicino Oriente: visita quattordici paesi, ha incontri con tutti i leader della decolonizzazione, da Nasser a Nyerere, da Obote a Kenyatta, a Nkrumali, a Sékon Touré; va in pellegrinaggio alla Mecca. Al ritorno, dirà che il viaggio gli ha "aperto gli occhi". 
L'aspetto decisivo di quest'ultima fase dell'evoluzione interrotta di Malcolm è l'allargamento della sua prospettiva politica, la percezione della necessità di collocare la lotta di liberazione dei neri degli Stati uniti nel contesto politico, teorico e culturale delle lotte di liberazione di tutti i popoli di colore del mondo. "Non potete separare la combattività mostrata sul continente africano dalla combattività dispiegata qui tra i neri americani... Non potete separare, la rivoluzione africana dallo stato d'animo del nero in America", risponderà all'intervistatore il 18 gennaio 1965. Nella stessa intervista denuncerà il ruolo degli Stati uniti nel Congo e dirà parole profetiche sull'intervento statunitense in Vietnam: "Non vedo come una persona con la testa a posto possa pensare che gli Stati uniti riescano a farcela laggiù, è impossibile... la loro totale disfatta nel Vietnam del Sud è solo una questione di tempo".

Lo stesso nome della sua nuova organizzazione è modellato su quell'organizzazione per l'Unità Africana cui hanno dato vita in Africa i protagonisti della decolonizzazione meno di un anno prima, come spiegherà il 28 giugno 1964: "Una volta che abbiamo visto cosa erano capaci di fare, abbiamo preso la decisione di cercare di fare la stessa cosa qui in America tra gli afro-americani, che sono stati divisi dai nostri nemici". Gli obiettivi saranno chiari, radicali: "Combattere chiunque si metta sulla nostra via, conseguire la completa indipendenza della gente di discendenza africana qui nell'emisfero occidentale e prima di tutto negli Stati uniti, e ottenere la libertà di questa gente con ogni mezzo necessario". 
Non avrà però il tempo per definirli meglio, i mezzi. Tra il maggio 1964 e la morte, Malcolm abbandonerà, per esempio, quell'ideologia del "nazionalismo nero" che aveva propugnato in precedenza e ammetterà: "Troverei... difficile dare una definizione precisa della filosofia complessiva che penso sia necessaria per la liberazione del popolo nero in questo paese". Non rinuncerà ne all'estremismo ("Se siamo estremisti non ne abbiamo vergogna.

Le condizioni in cui il nostro popolo si trova sono gravissime e una malattia gravissima non può essere curata con una medicina moderata"), ne all'autodifesa ("Noi siamo non violenti solo con gente non violenta. Io sono non-violento finché un altro è non-violento"), ne tantomeno al giudizio sulla società statunitense ("Il sistema americano è stato prodotto dalla messa in schiavitù dell'uomo nero. Questo sistema politico, economico e sociale è il prodotto della messa in schiavitù del nero e questo particolare sistema è in grado di riprodurre solo ciò che lo ha prodotto. L'unico modo... è rivoluzionare il sistema"). Malcolm era pienamente consapevole, da una parte, dei nuovi spazi mentali aperti in lui dall'abbandono della rigida ortodossia black muslim; dall'altra, dei nuovi orizzonti teorici e politici offertigli dall'esperienza internazionale e, dall'altra ancora, della necessità di rapportarsi a quello che i movimenti sociali e politici - non solo afro-americani - stavano producendo ogni giorno negli Stati uniti. Il possibilismo programmatico che lo caratterizzò nell'ultima fase della sua vita non era frutto di indecisione, ma di realistica, estrema apertura nei confronti della creatività dei movimenti. "Stava andando in cerca di nuove idee politiche", scrisse I.F. Stone poco dopo la sua morte.

Malcolm X fu una delle incarnazioni più autentiche della cultura afro-americana, fu vissuto come tale per le sue doti personali e perché nella sua vicenda individuale era distillata tanta parte della storia collettiva: il padre ucciso dal Ku Klux Klan, l'istruzione negativa, il riformatorio, i lavori "da negro" e la malavita come scappatoia, la prigione, la conversione religiosa e la militanza politica. Questo suo itinerario - ripercorso in Con ogni mezzo necessario nel bei saggio introduttivo, di prima mano, di Ferruccio Gambino - venne reso universalmente noto nell'Autobiografia pubblicata poco dopo la sua morte. Mentre era in vita, la pubblicistica bianca che lo contrapponeva a Martin Luther King aveva spesso giocato sui suoi trascorsi criminali e carcerari per screditarlo. Ma i giovani arrabbiati dei grandi ghetti urbani proprio nell'esemplarità del suo percorso trovarono materia per l'identificazione con lui. Nel passaggio della protesta nera alle metropoli del nord, fu grazie all'esempio di Malcolm X - e, certo, di altri; ma nessuno come lui - che tante carriere criminali o potenzialmente tali deviarono proprio in quegli anni verso il radicalismo politico e la rivolta.

Si riconoscevano in lui anche perché, come scriveva Roberto Giammanco nell'introduzione del 1967 all'Autobiografia, "sapeva parlare, unico tra tutti i leader negri del nostro tempo, ai ragazzi del ghetto, ai cats in the street; era stato uno di loro sempre". La sua parlata era fremente: non il fluire lento e grandioso delle immagini bibliche della retorica religiosa meridionale, ma l'incalzare delle frasi verso una battuta conclusiva - rovesciante, irridente, sarcastica, provocatoria, illuminante - secondo i modelli della dialogicità competitiva del ghetto. Era quella capacità di "distruggere qualcuno con le parole", che H. Rap Brown definiva come tipica delle "dozens", la più graffiante tra le schermaglie verbali delle culture di strada afro-americane. Dalla cultura dei ghetti odierni, in cui quella discorsività competitiva e provocatoria ha assunto le forme del rap, come sottolineava Amiri Baraka in un'intervista recente, Malcolm X - l'idea, il mito - non è certo assente. Rimane l'unico il cui discorso non sia stato dimenticato. Ma nell'estremismo verbale del rap, come nella violenza del ghetto, mancano sia la progettualità politica, sia la ricerca dei "mezzi necessari" al rovesciamento del sistema che caratterizzarono l'ultimo Malcolm X.