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Il piacere politico del cinema
di Cristina Piccino
Da "il manifesto"
del 10 febbraio 2004
Mario Van Peebles racconta Hollywood e i suoi stereotipi in una ricostruzione di «Gettin' The Man's Foot Outta Your Baadassss!». C'è l'incendio nei ghetti african-american e ci sono le aggressioni della polizia ma soprattutto c'è la rivincita su un sistema che vede solo mercato e grosse produzioni. E in concorso l'argentino Burman propone la sua disturbata famiglia di «El abrazo partido»
La morte di Malcolm X e di John Kennedy, l'incendio nei ghetti african-american e le aggressioni poliziesche, Hollywood e i suoi immaginari stereotipati: Los Angeles 1970, come può fare un cineasta black con un film di successo alle spalle a raccontare comunità, realtà scottante e insieme aggirare la censura di studios, produttori, «business e money» troppo spaventati dai potenziali rivoluzionari delle sue visioni? Mario Van Peebles aveva appena girato The Watermelon Man, soldi francesi e la rivelazione negli States di un talento nel quale i «boss» hollywoodiani intuiscono subito un potenziale di successo. Per tutti è un cineasta francese, che sia african american è impensabile, ma quando arriva con la sceneggiatura di Sweet Sweetback's Baadasssss Song gli sbattono la porta in faccia. Troppo confusa, titolo troppo difficile, ma soprattutto troppo pericolosa. Nessuno in quel momento avrebbe finanziato un film con un eroe rivoluzionario che non è Sidney Poitier ma incarna le tensioni dell'epoca, racconta violenza delle istituzioni, mancanza di diritti e soprattutto con strumenti raffinatissimi del cinema destabilizza secoli di rappresentazione della comunità nera e non solo. Niente più camerieri, facce dipinte sorridenti (ricordate il meraviglioso Bamboozed di Spike Lee), «neri» buoni e sottomessi ma scoperta e liberazione di radici, identità, cultura, politica. Van Peebles il suo film lo fa lo stesso: sono anche gli anni di invenzione dell'indipendenza, la factory di Roger Corman, stessa lucidità che sa utilizzare la «lezione» hollywoodiana ribaltata, obiettivo fare soldi, abbassare i costi, divertirsi. Sweet Sweetback's viene girato coinvolgendo amici, conoscenti, soldi di un produttore porno, i figli e la famiglia, incontri fortunati come gli Earth Wind & Fire che ritmano la magnifica colonna sonora, ritmi di lavoro massacranti e angoscia dei soldi - tanto che Van Peebles rischia di perdere un occhio - liti furiose ma anche piaceri sovversivi.
La storia ce la racconta oggi Mario Van Peebles, figlio di Melvin, che su quel set ha debuttato come attore a 13 anni, vivendo in prima persona coraggio ma anche umori impossibili paterni. Gettin'The Man's Foot Outta Your Baadasssss! dedicato a Pamela Gordon che Panorama non si è lasciato giustamente sfuggire dopi i passaggi a Toronto e al Sundance, per questo è più che una «ricostruzione»: si parla di come inventare un cinema politico e di piacere, scelta difficile allora e oggi come dimostra il film di Mario - che firma anche la sceneggiatura insieme a Dennis Haggerty dal libro paterno - girato in 18 giorni, costi bassissimi che non limitano la qualità del decor perfettamente vintage nel mescolare materiali d'achivio, protagonisti di allora, cast d'eccezione (c'è anche Ossie Davis) intuizioni contemporanee.
Produttore è Michael Mann, che Mario Van Peebles lo ha diretto in Ali idea di partenza per questo suo film, lui il primo atleta black power, il padre il primo cineasta black power e indipendente dice il regista. E come Melvin anche Mario nel confronto col cinema del padre affronta le stesse questioni: come cioè raccontare quel cortocircuito di cinema e politica senza chiuderlo nella Storia ma rendendolo materia viva e sempre attuale. Gettin' The Man poi è anche una storia privata, il vissuto di Mario che sullo schermo si sdoppia e interpreta Melvin contrapponendolo al se stesso ragazzino, capelli afro alla Angela Davis (è Khalo Thomas, una vera scoperta) coinvolto insieme alla sorella nelle esperienze del padre, magnifico seduttore ma anche uomo implacabile.
Il suo è un cinema fatto «con ogni mezzo necessario»: passione, divertimento, donne, feste, l'amico ricco e hippy che lo sostiene, l'irriverenza per i produttori pagata duramente, la tristezza di una sala vuota e il coraggio di non arrendersi comunque. Una sfida che Mario ha saputo metabolizzare, ragazzino che segue il padre dietro alla macchina da presa con la consapevolezza del fare cinema in prima persona. Sweet Sweebacks' sarà il manifesto della blaxploitation, lotta politica Black Panther in forma di immaginario personale e collettiva : «mio padre si è preso la sua rivincita su Hollywood è ha cambiato il modo in cui le `minoranze' non solo african american venivano rappresentate», dice il regista. La stessa energia che muove Gettin' The Man, memoria e insieme racconto presente degli equilibri complessi di linguaggio, mercati, grosse produzioni, indipendenza, distruzione di quegli stereotipi che nella sua forma addomesticata rischia di costruirne dei nuovi ugualmente spendibili e con poco rischio.
Padri e figli. Sembra essere l'ossessione degli schermi berlinesi. Gettin' The Man in questo senso è una sperimentazione geniale, Van Peebles come Tim Burton in Big Fish lo vive liberamente trasformandolo in gusto del cinema, rovesciandone così i presupposti più comuni che sono di figli conservatori-amanti dei codici contro padri che sperimentano la fantasia.
Lo stesso non si puo dire per molti altri cineasti, in comune l'età, intorno ai trenta, e quella voglia di padre ribaltata dove il conflitto non nasce dal distacco o dalla necessità di un'altra idea di famiglia, al contrario arriva dalla mancanza. Il padre assente, fantasma quasi amletico, e il bisogno di sentirsi figlio - o padre a sua volta che poi sembra lo stesso. Da qui parte anche Daniel Burman, argentino della nuova onda, già a Berlino (Panorama) con Todas las azafatas van al ciel, in El abrazo partido, selezionato per il concorso. Protagonista è Ariel (Daniel Hendler), cresciusto nella comunità ebraica di Buenos Aires. La madre - Sonia Aizemberg - ha un negozio di biancheria intima, il padre li ha abbandonati per vivere in Israele, circondato da un alone di leggenda, prima che lui nascesse, la nonna è fuggita dalla Polonia durante la guerra e non vuole più ricordare. Mentre lui vorrebbe il suo passaporto polacco perché cerca di partire per l'Europa. Un giorno il padre torna all'improvviso. Burman, anche autore della sceneggiatura, e che appartiene alla stessa generazione del suo personaggio (è nato nel 1973), sceglie la cifra dell'ironia, giocando con le ossessioni di Ariel, che interpreta in modo molto più «chiuso» la vita rispetto ai genitori: non accetta l'amante della madre, non sopporta il padre, è angosciato dall'idea dell'ex-fidanzata incinta, fa sesso con la proprietaria dell'internet bar. Lo guarda un po' a distanza per allargare poi l'obiettivo su quel gruppo bizzarro, complice, pieno di memorie segrete. E sottilmente sull'Argentina oggi, la crisi che soffoca i piccoli negozi, i soldi che non circolano più, i ragazzi come Ariel che cercano la fuga. O il papà.
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