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La prima volta che vidi Malcolm


di Wu Ming

Da "L'Unità" del 20 febbraio 2005


E' possibile scrivere cose non banali su Hajj Malik El Shabazz, alias "Malcolm X", nel quarantennale del suo assassinio? E' possibile buttar giù un articolo di media lunghezza senza mettere in fila clichés e frasi fatte? In Italia? Dove un sacco di gente scrive il suo nome "Malcom"?

La prima volta che vidi Malcolm, non era lui. Lo interpretava un attore, Al Freeman Jr., svariati anni prima di Denzel Washington e Mario Van Peebles. Era una puntata di Radici (seconda serie). Negli anni Settanta, l'evento televisivo per antonomasia. Insieme a Sandokan, lo sceneggiato (così li chiamavamo allora) che più colpì le menti della mia generazione. Alzi la mano chi non ha avuto un compagno di scuola o di oratorio soprannominato "Kunta Kinte" o "Gallo George". Avrò avuto dieci anni, non sapevo niente di Malcolm né di Alex Haley (curatore della sua autobiografia e autore di Roots). Quella puntata non l'ho più rivista, ma ricordo le sequenze una per una. Fu Malcolm a farsi strada tra i miei neuroni.
Quando un attore - qualunque attore - lo interpreta, è come se Malcolm lo possedesse. Persino la parodia si carica di epos. In una sequenza del (brutto) film di Mel Brooks Robin Hood, un uomo in calzamaglia (1993), David Chapelle imita Denzel Washington che fa Malcolm. E' l'unica sequenza che resta incisa nella memoria.

Così, la prima volta che vidi Malcolm, non era lui... però era lui, crepitante d'elettricità. Eccolo, il cliché: Malcolm è "elettrico". E' "magnetico". Ha "carisma". "Buca lo schermo". E' molto più sciamanico di qualunque rock-star per cui sprecammo l'aggettivo. La sua voce, l'oratoria che fa perdere l'equilibrio (o lo fa riacquistare), il linguaggio del corpo, l'immagine, la presenza... Tutto contribuisce a farlo rimanere nel mondo anche da morto, necessario come un piccolo dio domestico, un Lare, l'antenato che resta ad abitare in un angolo della casa.

In Malcolm, tutto lavora a ghermire l'energia del mondo, trasformarla, distribuirla intorno. Comunica con l'uditorio in modo tanto diretto da scavalcare le barriere del tempo. Son passati più di quarant'anni, eppure quelle registrazioni gracchianti ti afferrano per le spalle e ti scuotono. Quelle parabole e storielle piene di animali, quelle domande retoriche, quei passaggi a "chiamata e risposta"... 
Anche l'icona di Malcolm è vivida, vibra, scotta le palle degli occhi. Le sue foto continuano a dirti mille cose, non stanno mai zitte, il sorriso non smette di detonare dalle pagine e dagli schermi. I filmati ti costringono ad alzarti dalla sedia, senti la scossa nei dischi vertebrali.

21 febbraio 1965, Audubon Ballroom di Harlem. Una faida tra neri fomentata dall'FBI stronca la vita del "nostro splendido principe nero", come lo chiamerà Ossie Davis nella sua orazione funebre. Malcolm è stato ucciso, eppure, nel 2005, ancora si fatica a pensarlo morto, tanto che la sua tomba non è meta di pellegrinaggio, al contrario di quella di Martin Luther King. Non viene neppure in mente, che Malcolm abbia una tomba, tanto sembra ancora in mezzo a noi, anzi, sempre più in mezzo a noi. 

"La miglior cosa che l'uomo bianco abbia mai fatto per me, è stata farmi apparire come un mostro in tutto il mondo. Perché io posso andare da qualunque parte nel continente africano e i nostri fratelli africani sanno da che parte sto". E' ancora così: quando Malcolm arriva, sai già da che parte sta. In tutto il pianeta, in un'era di scontri tra grandi imperi guidati da piccoli uomini, la statura di Malcolm continua a crescere. Per tanto, troppo tempo, lo si è ritenuto un semplice "agitatore". Il suo linguaggio diretto e colorito, il linguaggio che tocca il cuore, ha ostacolato la sua rivalutazione come uno dei più importanti intellettuali del XX° secolo. Chi rilascia la patente di "pensatore"?

Lungi dall'essere poco sofisticato, Malcolm è un leader culturale che parla agli umani a venire. Quello che dice non sarà mai "datato". E nemmeno come lo dice. I discorsi di Malcolm sono capolavori di composizione - "composizione spontanea", semi-improvvisazione su un canovaccio. Ogni suo discorso è una storia compiuta di affermazione, auto-disciplina e stile di fronte al nemico. Eri nel fango e ne sei uscito, tutti possono uscirne. La lotta per la memoria è riconquista della dignità. George Washington scambiò un suo schiavo con un barile di melassa, ma tuo nonno non era un barile di melassa. Tuo nonno era Nat Turner. Tuo nonno era Toussaint L'Ouverture. Tuo nonno era il "negro dei campi", pensava alla fuga e a uccidere il padrone. Tuo nonno è quello che non piega la schiena.

E ancora: tu non sei americano. Ho detto: Tu non sei americano. Sei seduto alla tavola degli americani, ma il tuo piatto è vuoto. Non puoi essere un commensale, se non ti permettono di mangiare. Malcolm è oltre l'America, è la prospettiva globale, contro l'autocentrismo yankee. Estende a tutta la diaspora nera il termine "afro-americano", e anticipa il discorso sull'afroatlantismo. Viaggia per le rivoluzioni coloniali armato di cinepresa, ricolloca la propria anima nel Sud del mondo.

Chiudo con un'ultima sciabolata di Malcolm al nodo gordiano del razzismo, rovesciamento del punto di vista che ci parla del nostro presente. "Sono stanco di tutti questi studi sui neri d'America e il 'problema nero'. E' tempo che l'America faccia uno studio approfondito su cosa non va nei bianchi!" Lui pensa ai segregazionisti, al Klan, a J. Edgar Hoover. A noi vengono in mente i seminari sulla Bibbia organizzati da Bush alla Casa Bianca, i discorsi apocalittici, i deliri dei neo-cons, l'offensiva creazionista contro Darwin... 

Sì, può darsi che Malcolm abbia ragione: dev'esserci un "problema bianco", su questo pianeta. Condi Rice? Condi Rice è bianca, strano che non ve ne siate accorti. Malcolm è insieme a noi, oggi più di ieri. Mio nonno era Spartaco. Mio nonno era alla Comune di Parigi.